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ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - STORIA - L'ETÀ DELLA DEMOCRAZIA

LE FORME DELLA POLITICA NELLA SOCIETÀ DI MASSA


La Seconda guerra mondiale vide contrapposta ai regimi nazista e fascista, e agli altri regimi autoritari loro alleati, la provvisoria e tutt'altro che scontata alleanza delle democrazie parlamentari dell'Occidente, Gran Bretagna e Stati Uniti, e del primo Stato che si fregiasse dell'aggettivo «socialista», l'Urss, nata da una rivoluzione condotta sia contro l'autoritarismo zarista, sia contro il sistema parlamentare liberaldemocratico sostituitosi al precedente nel febbraio 1917. I vincitori, ma soprattutto i due più potenti, Usa e Urss, proponevano al mondo due modelli politici distinti e contrapposti, che, appena terminata la guerra antinazista e antifascista, erano destinati a confrontarsi in tutto il mondo come diversi modi di organizzare la vita politica tanto nei Paesi europei quanto delle nuove nazioni indipendenti dell'Asia e dell'Africa. Il sistema politico giapponese, ad esempio, fu elaborato direttamente dagli occupanti statunitensi; e l'Urss impose il proprio modello politico ai Paesi europei sotto il suo controllo. In realtà, però, il mondo appena uscito dal conflitto contava nella stessa Europa dei regimi autoritari (quello portoghese e quello spagnolo), un po' sbrigativamente definiti fascisti e di fatto cattolico-reazionari. E fuori d'Europa erano numerosi i regimi politici autoritari, dalle monarchie tradizionali del mondo islamico e asiatico alle democrazie parlamentari fittizie, e controllate da ristrette oligarchie, dell'America latina. Solo dopo il 1945, e non senza difficoltà, i modelli parlamentare o democratico-liberale e sovietico o socialista si sono diffusi nel mondo, convivendo con forme di organizzazione politica ibride e diverse.
I presupposti dei sistemi democratico-liberali e parlamentari (economia di mercato, riconoscimento a tutta la cittadinanza di diritti civili e politici, esistenza di più organizzazioni politiche concorrenti ma concordi nell'affidare alla pacifica competizione elettorale la risoluzione dei conflitti politici, un'opinione pubblica alfabetizzata e politicizzata) erano il prodotto delle vicende storiche della sola Europa occidentale e di alcune sue diramazioni transoceaniche, come gli Stati Uniti e gli ex dominions britannici (Canada, Australia, Nuova Zelanda).
A sua volta, lo Stato dei soviet creato dai bolscevichi russi traeva origine dall'iniziativa di un'avanguardia rivoluzionaria di intellettuali e operai in un Paese privo di tradizioni parlamentari ed arretrato quanto a strutture sociali e produttive, ma già avviato all'industrializzazione. Per diversi motivi, si trattava di circostanze non facilmente riproducibili altrove nel mondo. Il trapianto del sistema parlamentare inglese nell'India indipendente, e quello del sistema sovietico nella Cina di Mao sono stati esperimenti tanto lontani dagli originali quanto le concrete situazioni asiatiche lo erano dall'Europa occidentale e dalla Russia. I nomi e le nozioni istituzionali (Stato, partito, Parlamento, sindacato) e ideologiche (democrazia, socialismo, marxismo-leninismo) inventate dall'Occidente - e dal punto di vista culturale e politico l'esperienza sovietica ha radici prettamente europee occidentali - hanno ricoperto nel Terzo mondo pratiche e progetti politici assai eterogenei e spesso scarsamente compatibili con gli originali. L'attività dei partiti in società largamente analfabete è ristretta a esigue minoranze privilegiate (com'era il caso della maggior parte dell'America latina) o di avanguardie altrettanto esigue (com'è stato il caso dei Paesi ex coloniali).
D'altra parte, nello stesso mondo occidentale l'avvento della democrazia, annunciato come imminente o avvenuto sin dal secolo scorso, e scaturito dalle premesse ideali della Rivoluzione francese, ha dovuto attendere sino a questo secolo anche nei Paesi retti da ordinamenti liberali e parlamentari. Il diritto di voto è stato esteso a tutti i cittadini maschi in Gran Bretagna solo dopo la Prima guerra mondiale, e a tutte le donne nel 1928. Ma non prima del 1949 vennero abolite le norme che assegnavano alle università un voto privilegiato. In Italia solo nel 1945 le donne hanno ottenuto il suffragio. E alcuni Paesi europei, per esempio nell'Est, hanno conosciuto ben poco di una semplice democrazia parlamentare (libera organizzazione di partiti, libere elezioni, suffragio universale) sino ad oggi. Senza dire che negli Stati Uniti espedienti per limitare il diritto di voto dei neri sono stati in vigore in alcuni Stati sino agli anni Cinquanta. Ma l'attenzione per i problemi della democrazia, dello Stato, della libertà e della giustizia in astratto, per l'analisi delle ideologie e dei grandi concetti politici (come liberalismo, socialismo, comunismo) porta forse a trascurare l'aspetto sociale e la sostanza quotidiana della politica.
Le elaborazioni ideologiche e i programmi di partito sono prodotti elitari di ristretti gruppi di professionisti della politica e della cultura, anche quando essi si ispirano alle idee più avanzate. Il passaggio dall'elaborazione della linea politica alla sua applicazione sottintende perciò l'esistenza di canali di comunicazione tra élite politiche e masse, e di forme di organizzazione del consenso alla linea politica. Nei sistemi parlamentari dell'Occidente questo risulta evidente da sempre: le macchine di partito, le reti di patronato e le clientele sono fenomeni funzionali al sistema. Ma in realtà questi fenomeni si ritrovano nelle società tradizionali, appena giunte, o non ancora giunte, alla democrazia parlamentare, e in tutti i regimi rivoluzionari detti comunisti, nessuno escluso. La spontaneità rivoluzionaria è una metafora che è stata talvolta scambiata per realtà: di fatto nessun movimento sociale e nessuna azione collettiva che si proponga il raggiungimento di scopi razionali è mai interamente e continuamente spontanea. I gruppi di interesse, le reti di alleanze e di solidarietà sono piuttosto il dato permanente. Questo fa sì che nessun sistema politico risulti così assorbente e opprimente come l'approccio ideologico vorrebbe. Nelle società capitalistiche il conformismo e l'apatia politica denunciate dai critici radicali sono forse meno profondi di quanto non si tema. E i totalitarismi teorizzati da un importante filone del pensiero liberale sono stati forse progetti politici, ma molto meno realizzazioni pratiche. Gli apparati statali autoritari dei fascismi potevano reprimere, ma non convincere. E le società dell'Est, totalitarie anch'esse, secondo i critici, nascondevano sotto la crosta del partito unico e delle sue organizzazioni le più svariate correnti culturali, puntualmente riemerse non appena tornata la possibilità di espressione; senza contare che i regimi stessi erano frammentati al loro interno in gruppi di interesse, fazioni, lobby in concorrenza non meno reale per essere sotterranea.
L'approccio ideologico alla politica ha, insomma, schiacciato la conoscenza realistica delle relazioni tra le persone e i gruppi.

LA DEMOCRAZIA CON AGGETTIVI


La critica marxista alla democrazia parlamentare ha sempre e giustamente osservato che si tratta di un sistema politico dove le libertà sono formali, ma non sostanziali, per le diseguaglianze prodotte fra i cittadini dall'esistenza dei rapporti di produzione capitalistici. La democrazia sostanziale potrebbe dunque fare a meno di alcune delle procedure del parlamentarismo, perché assicura in cambio il soddisfacimento di una libertà fondamentale quale è quella del bisogno.
La dittatura del proletariato, attraverso lo strumento del partito di classe, interprete delle esigenze della stragrande maggioranza della popolazione, rappresenterebbe perciò una forma di democrazia migliore di quella fittizia rappresentata dalla competizione tra partiti rappresentanti, consapevolmente o meno, gli interessi dei ceti dominanti. Più o meno queste argomentazioni sono state sostenute e ripetute per asserire la superiorità dei sistemi politici dei Paesi dove aveva avuto luogo una rivoluzione socialista. Contro le democrazie liberali o parlamentari, i sistemi dei Paesi dell'Est del dopoguerra si sono definiti infatti «democrazie popolari». La critica al carattere autoritario e burocratico di quelle esperienze politiche venne però avanzata da più parti sin dall'indomani della rivoluzione d'Ottobre, e riproposta in termini diversi da uno dei protagonisti della rivoluzione stessa, Lev Trotskij. Nel dopoguerra l'estensione del modello politico sovietico ad altri Paesi ha stimolato ulteriori analisi: un collaboratore di Tito, lo jugoslavo Milovan Gilas, definì «nuova classe» l'apparato dirigente delle democrazie popolari, intendendo che i suoi membri si costituivano in strato privilegiato non solo dal monopolio del potere decisionale, ma anche da concreti privilegi (magari modesti secondo i parametri occidentali) di ordine materiale: case migliori, accesso a negozi forniti di beni di consumo introvabili per la popolazione, possibilità di viaggiare ecc. Nomenklatura è l'espressione adoperata per questo ceto burocratico privilegiato in Urss: e l'esperienza degli ultimi anni di Breznev e dei regimi dell'Est caduti nel 1989 ha mostrato che ai privilegi si accompagna una corruzione solo quantitativamente diversa da quella di cui sono piene le cronache delle democrazie parlamentari.
La democrazia di cui si parla, per gli Stati dell'Occidente, è sempre quella politica. Ma le forme nelle quali è esercitata sono le più diverse. I sistemi elettorali quasi ovunque non fotografano la volontà dell'elettorato: per far questo sarebbe necessario un sistema di rappresentanza proporzionale pura, che di per sé tende a favorire la frammentazione e la moltiplicazione dei partiti. Quasi nessun Paese prevede la proporzionale pura; solo l'Italia, tra i Paesi con un elettorato numeroso, ha avuto per anni un sistema che le si avvicinava molto. E proprio il sistema elettorale divenne tema di controversia e discussione alla fine degli anni Ottanta tanto da arrivare, nel 1993, a un referendum che sancì l'introduzione di un sistema elettorale "misto'', caratterizzato da un 75% di maggioritario (derivazione del classico schieramento in grandi blocchi) e da un 25% di proporzionale (vera garanzia di permanenza in Parlamento anche di movimenti e partiti di dimensioni modeste). Prima di quella data, però, la frammentazione politica obbligava alla formazione di Governi di coalizione, ad un'intensa attività di mediazione parlamentare, e ad una consolidata prassi spartitoria e trasformistica. Infatti, ancora a proposito dell'Italia, era stato ripetutamente osservato che la democrazia parlamentare che vi vigeva era di tipo «consociativo»: cioè, che tendenzialmente tutte le forze politiche, anche di opposizione, erano in qualche modo associate alle decisioni. A questo passato modello italiano veniva contrapposta la democrazia «conflittuale» tipica di Paesi di più antica storia parlamentare, dove il sistema politico incoraggia la formazione di schieramenti alternativi, conflittuali appunto, e reciprocamente escludentisi. Così la Gran Bretagna, ed anche la Francia dopo il 1958; così anche gli Stati Uniti.
Va però aggiunto che l'Italia era - ed è - tra le democrazie parlamentari quella che presenta la più alta partecipazione al voto; che la registrazione degli elettori era fatta d'ufficio dalle autorità pubbliche; e che la frammentazione politica era segno della volontà popolare e un modo di dare espressione un po' a tutte le istanze politiche, vecchie e nuove. Altrove la partecipazione al voto era - ed è - generalmente più scarsa: negli Stati Uniti, ad esempio, la registrazione degli elettori è volontaria; le elezioni si tengono in un giorno infrasettimanale; e la partecipazione al voto è addirittura calata nel corso di questo secolo, attestandosi negli anni Ottanta attorno al 50-52 per cento degli aventi diritto.
Presidenti conservatori come Reagan e Bush, il cui successo è stato portato a dimostrazione di uno spostamento a destra degli Americani, sono stati eletti da non più di un quarto della nazione. Idem per quel che concerne le elezioni del democratico Clinton (1992 e 1996) e di Bush figlio (nel 2000, con oltre 50 milioni di elettori su un totale della popolazione oltrepassante i 270 milioni). In Gran Bretagna il sistema elettorale penalizza le formazioni intermedie e i partiti minori, a meno che non abbiano una base e un programma locali: i nazionalisti scozzesi e nordirlandesi hanno una rappresentanza più o meno equa in Parlamento, mentre i liberali, un partito di centro-sinistra, ottengono da mezzo secolo un numero di parlamentari assolutamente inferiore alla loro percentuale di suffragi elettorali. Addirittura, nel 1951 i conservatori ottennero 26 seggi in più dei laburisti, e la maggioranza assoluta in parlamento, pur avendo ottenuto duecentomila voti in meno. Le percentuali relativamente basse di affluenza alle urne esprimono in qualche misura l'insoddisfazione di parte della popolazione per il sistema politico, dal quale non si sentono rappresentati, e l'avversione per l'influenza che gli apparati di partito, le «macchine», i mediatori, professionisti e profittatori della politica, insomma, esercitano a scapito delle reali istanze dei cittadini.

IL SESSANTOTTO: UN INIZIO O UNA FINE?


Il tornante della storia politica dell'Occidente in questo dopoguerra è rappresentato da quell'insieme di movimenti di protesta che è complessivamente riassunto nella definizione di «Sessantotto», con riferimento agli avvenimenti del 1968. In quell'anno una rivolta studentesca a Parigi, abbinata a un'ondata di agitazioni sindacali, paralizzò per un momento il Governo conservatore. Lo stesso anno (che fu aperto dall'offensiva dei Vietcong detta del Tet, cioè del capodanno vietnamita) assistette al fiorire della «primavera di Praga», ovvero dell'esperimento di comunismo liberale di Alexander Dubcek, appoggiato dagli studenti, e ad agitazioni studentesche anche in Polonia; in Occidente fu l'anno degli studenti anche in Italia, in Germania e in misura assai minore in Gran Bretagna. Si ricordi che negli Stati Uniti era sempre in corso la protesta degli studenti e dei neri (il Sessantotto fu l'anno del raduno pacifista alla Convenzione democratica di Chicago), e in Cina la «rivoluzione culturale». La simultaneità di tutti questi fenomeni ha talvolta evocato per analogia il Quarantotto (ossia il 1848), la «primavera dei popoli» dell'Europa. Analogia assolutamente estrinseca evidentemente: ma che pone il problema di individuare che cosa univa e cosa invece differenziava i movimenti di quegli anni.
Intanto, l'espressione «Sessantotto» è entrata nell'uso, incontestata, principalmente in Italia e in Francia, dove però si parla anche di «avvenimenti di maggio» (e si scrisse subito di «maggio francese»). Inoltre, la sottolineatura del 1968 è stata fortemente ispirata proprio dagli avvenimenti parigini (e del resto una prospettiva francocentrica non è mai mancata nelle ricostruzioni francesi del clima politico di fine anni Sessanta): però, la protesta studentesca americana contro il Vietnam era iniziata almeno tre anni prima a Berkeley; la «rivoluzione culturale» cinese due anni prima; la protesta studentesca tedesca si era espressa soprattutto nel 1965-1967, anno quest'ultimo, in cui era iniziata anche in Italia. Ancora: l'ampiezza, l'intensità e la durata della protesta differirono molto. In Gran Bretagna le proteste studentesche rimasero isolate ed ebbero comunque un peso piuttosto limitato. In Germania furono invece estese e trovarono alcuni leader e teorici di spicco, il più noto dei quali fu Rudi Dutschke, ma non stabilirono collegamenti di rilievo con le agitazioni operaie, che del resto riguardavano in buona parte lavoratori immigrati. In Francia le agitazioni operaie vennero pacificate dalla stipulazione di contratti favorevoli (accordi detti di Grenelle, dalla strada dove aveva sede il ministero del lavoro) e soprattutto dall'attiva mobilitazione del Partito comunista francese. Nell'immediato, l'esito politico dei fatti del Sessantotto fu di provocare ovunque un contraccolpo conservatore: in Francia de Gaulle stravinse le elezioni, negli Usa fu eletto alla presidenza Nixon, in Gran Bretagna tornarono al Governo i conservatori, nell'Est le proteste studentesche furono represse. In definitiva, l'Italia presentò il caso di più stretto e duraturo collegamento tra movimenti giovanili, soprattutto universitari, e lotte operaie (l'autunno caldo del 1969), e di più prolungata effervescenza politica: nel 1977 ci fu addirittura un'altra ondata di movimenti giovanili.
L'onda lunga del Sessantotto può però essere ravvisata in tutti i movimenti di azione collettiva (femminili, di immigrati, per l'occupazione di case, per l'ambiente) che continuarono a manifestarsi in Europa negli anni Settanta. L'insorgere del terrorismo in Germania e poi in Italia ha portato ad uno sbrigativo collegamento tra questo e il Sessantotto, nel senso di ravvisare in questo la causa di quello. Interpretazione di comodo, interessatamente avanzata dai conservatori, ma tanto superficiale quanto faziosa. Il denominatore comune di movimenti sorti in contesti politici tanto diversi fu (accanto ai grandi temi della solidarietà internazionale ai popoli oppressi, soprattutto al Vietnam in lotta) essenzialmente la protesta antiautoritaria e libertaria, che prendeva in ogni contesto i bersagli propri, e che investiva non soltanto le istituzioni ma anche le forze della sinistra tradizionale; e non soltanto la sfera propriamente politica, ma anche quella della vita quotidiana e dei costumi.
Come tale, il Sessantotto segnò l'emergere, anche se non la nascita vera e propria, di una «nuova sinistra»; e tentò di proporre forme di «controcultura» o di «cultura alternativa». In ogni Paese, il movimento attinse dalle culture politiche esistenti: anche se ovunque ci fu una ripresa di interesse per il marxismo, in tutte le sue correnti, specialmente quelle minoritarie ed eterodosse rispetto al canone marxista-leninista proposto dal modello sovietico, furono recuperati e rilanciati, dove più e dove meno, anche filoni culturali libertari e radicali non marxisti. Che in un movimento magmatico e frammentato affiorassero alla lunga le tentazioni di passare dall'arma della critica alla «critica delle armi», secondo una nota espressione di Marx, è stato una tragedia, e il segno di una sconfitta politica, inscritta forse nella rinuncia, o nella incapacità, a pensare una critica della società esistente in termini del tutto nuovi, e non in quelli di una esegesi del marxismo spesso raffinatissima, ma altrettanto spesso ridotta a diatriba bizantina per gruppetti di iniziati.
In un senso più ampio, tuttavia, le valutazioni del Sessantotto come sconfitta e come fallimento (cioè come esempio di un sogno utopico infranto: che è la lettura dei conservatori) sono illusioni ottiche, frutto più di delusioni esistenziali dei singoli che non di riscontri reali. Nel senso più ampio, di cambiamento accelerato dei modi di vita, di critica del conformismo e dell'autoritarismo, il Sessantotto ha piuttosto vinto, perché sotto tutti questi aspetti le società dell'Occidente (e anche quelle dell'Est) sono assai cambiate.
Nonostante tutte le fastidiose palinodie sulle illusioni nutrite fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, nessuna difesa delle società esistenti è più possibile nei termini dell'epoca precedente il movimento. La critica alle società autoritarie espressa allora rimane valida, e ha trovato campo di applicazione anche ai regimi comunisti; non c'è stata nessuna restaurazione, se non nel senso che ogni restaurazione implica che un cambiamento sia avvenuto, in via definitiva. Il fatto stesso che i modelli culturali marxisti e leninisti siano stati consumati uno dopo l'altro (il giovane Marx, Lenin, Trotskij, Rosa Luxemburg, Mao, Gramsci) rappresenta un successo, se vuol dire che la riflessione critica deve tornare ad applicarsi al presente (come del resto tutti i critici sociali, a cominciare da Marx e Lenin, hanno sempre fatto) e non avvitarsi nella lettura rituale dei testi sacri. In questo senso è probabile che il Sessantotto abbia chiuso una stagione; ma è altrettanto vero che per altri versi non è stato che un inizio, come voleva lo slogan degli studenti parigini.

IL SESSANTOTTO VISSUTO E RICORDATO


«Tu non hai il diritto di togliermi il dovere di...»

Poi un gesto rabbioso contro il microfono che, forse oltre le intenzioni, volò giù da cattedra e predella per finire con fracasso sul pavimento. Quasi duecento studenti allibiti guardarono il professore lasciare a gran passi l'aula: alla facoltà di Magistero dell'università di Genova era iniziato il Sessantotto.
Piccolo avvenimento, se paragonato alla contestazione giovanile scoppiata nelle università americane e a quanto stava accadendo tra gli studenti parigini. Piccolo se confrontato con quanto sarebbe accaduto di lì a poco anche in Italia: eventi registrati da una stampa sorpresa, che non capiva che cosa stesse succedendo tra le mura degli austeri palazzi universitari. Piccolo ma emblematico: entrava in quei momento in crisi un potere accademico (dei «baroni» si diceva e si sarebbe detto) abituato a considerare l'università come cosa propria, a non tener conto delle esigenze e delle aspettative di una massa di studenti che andava via via crescendo. Gli studenti non erano più disposti a seguire i riti di una cultura che sembrava aver perso ogni contatto con la realtà, non ci stavano più a partecipare al gioco dei parlamentini universitari, alle illusioni di una riforma (la legge Gui) che era stata la scintilla della contestazione. Soprattutto non ne potevano più dei professori atteggiati a buoni papà che tutto controllavano e tutto predisponevano per i loro figli-studenti.
Era possibile che il successo o l'insuccesso degli esami potesse dipendere dagli umori dei professori, come sembrava credere quell'assistente, che faceva capolino dall'aula delle interrogazioni ermeticamente chiusa, e con aria contrita sussurrava al gruppetto in trepida attesa: «Sottovoce, se no il professore s'arrabbia»? Era possibile ottenere il trenta rispondendo a domande stupidamente mnemoniche? Possibile che il piano di studi (rigidamente determinato) in una facoltà che avrebbe dovuto insegnare a insegnare, prevedesse un solo esame di psicologia e per di più complementare, come dire di serie B?
Al vecchio barone erano saltati i nervi nel sentirsi dare del paternalista, nel sentire che degli studenti si permettevano di rifiutare le modalità del dibattito da lui generosamente proposto, diretto, chiosato (anche se riguardava un ghiotto argomento: La lettera a una professoressa, allora fresca di stampa). Gli studenti proponevano un altro tema, più direttamente politico come la sporca guerra del Vietnam che i loro coetanei in America stavano drammaticamente contestando. E subito uno cominciò: «Da quando gli Americani sono a Saigon la prostituzione è aumentata del...». A quel punto il microfono volò a terra e il «buon papà» abbandonò l'aula.
Studenti che non avevano voglia di studiare? Al contrario, contestavano un'organizzazione dell'università in cui non era possibile studiare seriamente. Se tutti i 3000 iscritti del Magistero di Genova si fossero presentati diligentemente alle lezioni ogni mattina, dove sarebbero stati infilati se le aule al massimo potevano contenerne qualche centinaio? Non a caso il magistero era stato definito una scuola per corrispondenza dove ci si doveva far vedere solo al momento di dar gli esami. E altri e scottanti problemi erano sollevati dagli studenti: quelli della trasmissione di una cultura di cui si scopriva il volto classista utile a riprodurre le diseguaglianze sociali e un ordine ingiusto. L'università, si scopriva, selezionava una futura classe dirigente nutrita di una cultura accademica nel senso deteriore, separata, che non avrebbe mai permesso di cogliere le relazioni con il mondo in cui si viveva; cultura fatta per assopire, per frustrare, per creare docili strumenti di un sistema capitalistico in cui non ci si voleva riconoscere. E la scuola nel suo insieme era vista come una macchina fatta apposta per costruire, come si era espresso un fortunato opuscolo del tempo, «dei piccoli cretini, perfetti servitori, da grandi, dei padroni».
Come resistere alla gioia dello sberleffo liberatorio di fronte ai rituali di un mondo accademico irrigidito nelle sue piccole manie e nella sua incapacità di cogliere le esigenze di un'università non più destinata ad un'élite? Sberleffi liberatori, tenuti nei limiti del buon gusto, della dissacrazione culturalmente vivace, della provocazione intellettuale di chi sentiva di possedere gli strumenti per criticare la vecchia struttura universitaria e la preparazione degli stessi insegnanti.
Contestatori «Pierini», per usare una terminologia resa comune dai ragazzi di Barbiana, capaci di analisi raffinate, di documenti complessi ed acuti, di discussioni accanite e stimolanti: circolavano ed erano avidamente letti i documenti di Palazzo Campana di Torino, le Tesi della Sapienza di Pisa, produzioni di studenti che avevano occupato le loro università e proponevano riflessioni, forse non nuovissime, ma mai discusse in assemblee. Voglia di capire, di fare, di trasformare un mondo che non piaceva agli occhi dei Sessantottini che mentre rifiutavano l'asfittica vita dei parlamentini, scimmiottatura patetica della politica dei grandi, avrebbero voluto far politica in un modo più sincero. E tutto era politica: non era forse nato allora lo slogan «Il privato è politico» con le suggestioni, i rischi e le ingenuità che questo spesso comportava?
Un'ideologia di sinistra? Certamente, ma a suo modo. Nelle aule occupate si fischiettava con entusiasmo l'Internazionale, ma le note si intersecavano con quelle dei canti anarchici e ed anche con i motivi cabarettistici dei Gufi o di De André; tra gli antenati che si riscoprivano c'era Marx in compagnia però della Luxemburg e nei manifesti troneggiava «Che» Guevara. Un marxismo libertario dunque, che ispirava anche i comportamenti personali come quelli affettivi e rendeva di moda lo slogan: «Fate l'amore, non fate la guerra».
L'immaginazione al potere fu il fortunato slogan di quell'anno; si visse l'esperienza esaltante di inventare modi diversi di apprendere e di comunicare: fu la riscoperta del volantino ciclostilato, del manifesto, venne di moda il da-tse-bao. Si organizzarono contro-corsi. Si giocò ad inventare forme di protesta come il sit-in che paralizzava lo spazio universitario (e se al vecchio professore capitava di dover uscire calandosi dalla finestra, lo accompagnava una ironica risata), al corteo-serpentone che d'improvviso prendeva la corsa per le vie della città lasciando in coda e senza fiato le forze dell'ordine stralunate.
I partiti della sinistra storica della contestazione non avevano capito molto; erano stati presi alla sprovvista ed erano diffidenti. Stavano a guardare, ma molte tessere venivano strappate o semplicemente non erano rinnovate. Unico il Psiup era disposto ad offrire le sue sedi per le riunioni, senza chiedere niente.
Del Sessantotto si è detto molto, mitizzando o criminalizzando un'esplosione spontanea e sincera. Se ne è celebrato con gusto un po' mortuario perfino il ventennale. Si è discusso se la contestazione sessantottina fosse il prodotto di un'università di massa o ne annunciasse l'avvio, se si fosse di fronte alla rivolta dei figli-studenti contro i padri-baroni, se si trattasse di una semplice crisi generazionale o se tutto quel caos non dipendesse dal troppo benessere...
Tutte spiegazioni parzialmente vere ma tali da non rendere giustizia a una stagione ricca di fermenti e di grandi entusiasmi.
Chi ha vissuto quei momenti iniziali preferisce ricordare la contestazione ripensando all'orgoglio di giovani che scoprivano il potere della cultura e se ne impadronivano, che si sentivano autonomi, che scoprivano la forza delle idee, della provocazione intellettuale, l'ebbrezza dell'immaginazione al potere.
Fu un momento magico, anche se solo un momento.
Una manifestazione studentesca nel Sessantotto


IDEE E MODELLI DELL'OCCIDENTE NEL RESTO DEL MONDO


La democrazia parlamentare non ha trovato molti campi di applicazione al di fuori dell'Europa, dove è nata, e delle sue propaggini extraeuropee, come gli Stati Uniti e gli ex dominion britannici. Il mondo sovietico e l'Europa dell'Est hanno conosciuto un'esperienza diversa, dalla quale gli ex satelliti dell'Urss hanno cominciato ad uscire alla fine degli anni Ottanta, e che è terminata con la dissoluzione della stessa Urss.
La Cina ha percorso una via diversa da quella sovietica: ma la ventata della «rivoluzione culturale» non sembra aver avuto effetti antiautoritari, e la rivolta studentesca di fine anni Ottanta è stata repressa. Eppure, è auspicabile, e in un certo senso fisiologico, che dalla società salgano, col tempo, domande di partecipazione e contestazioni all'autorità. In India la democrazia parlamentare, del resto intesa in un'accezione singolare, visto, almeno fino al 1996, il perdurare dello stesso partito (il Congresso) al Governo, è stata forse la scelta più funzionale alla complessità di una società certamente più differenziata di quella cinese e meno facilmente assoggettabile ad un partito unico accentratore; né le condizioni in cui l'India uscì dalla dominazione coloniale erano paragonabili a quelle della Cina del 1949. Detto questo, la stragrande maggioranza tanto degli Indiani quanto dei Cinesi sono da sempre protagonisti passivi della politica dei loro Paesi: la democrazia parlamentare indiana è affare della minoranza alfabetizzata, laddove le centinaia di milioni di contadini sono raggiunti solo in virtù delle reti di patronato dei leader politici in cerca di elettori; e i contadini Cinesi sono in rapporto anzitutto con gli organismi locali, che mediano a loro volta con difficoltà le mutevoli direttive del vertice del partito.
Il mondo islamico presenta una assoluta prevalenza di regimi autoritari, monarchici o militari, e in Iran la rivoluzione ha dato vita ad una repubblica islamica, dove il potere religioso ha ufficialmente funzione di vigilanza su quello civile; dove esistono assemblee elette, il regime è comunque presidenziale, e le libertà politiche non sono estese a tutti i partiti (i comunisti sono stati posti fuorilegge e perseguitati anche in Paesi in buoni rapporti diplomatici con l'Urss, come l'Egitto di Nasser).
Nell'Africa a Sud del Sahara le istituzioni predisposte da Inglesi e Francesi al momento dell'indipendenza delle ex colonie sono state trasformate in regimi a partito unico o in dittature militari; in qualche caso (Kenya, Zimbabwe) il partito monopolista del governo è espressione dell'etnia maggioritaria.
Infine, l'America latina è approdata a vere democrazie parlamentari dopo una lunga fase di dittature o di regimi autoritari talvolta progressisti (come l'esperimento dei militari peruviani con il generale Velasco Alvarado). Per Argentina, Uruguay e Brasile l'approdo a una democrazia parlamentare pacifica è un dato degli anni Ottanta. Altrove, invece, meccanismi politici sono stati truccati in modo da favorire regolarmente il partito di regime (come in Messico, dove fino al 2000, e per 71 anni consecutivi, fu al potere il Partito rivoluzionario istituzionale). La tradizione politica latino americana è comunque generalmente presidenzialista; e gli esperimenti populisti e progressisti hanno avuto al centro personaggi carismatici. Sembra, in sostanza, che l'Occidente abbia esportato con successo tutto di sé, tranne forse proprio ciò che può essergli riconosciuto come acquisizione di valore universale: il concetto, le idee e le procedure della democrazia politica.

LA DEMOCRAZIA SENZA AGGETTIVI


Da un panorama politico risulta in definitiva che i processi di trasformazione del mondo dalle società tradizionali a parti (subalterne o motrici, a seconda dei casi) della civiltà industriale è avvenuto quasi ovunque attraverso il dominio di minoranze, magari sedicenti progressiste e rivoluzionarie, sulle maggioranze dei popoli. Lo stato delle cose al tramonto del millennio non è naturalmente un dato definitivo e ineluttabile. La maggior parte del mondo è stata trascinata a forza e subitamente nella modernità.
Ci sono segni che le aspirazioni di partecipazione alle decisioni politiche, alla determinazione del proprio destino, si vadano diffondendo e che gli autoritarismi siano ovunque sfidati e disapprovati, almeno in linea di principio. Nessun regime autoritario viene riconosciuto legittimo, se non sul piano positivo dei rapporti giuridici. La democrazia parlamentare, come mezzo per uscire dall'autoritarismo politico, viene presa come obiettivo quasi ovunque nel mondo. Anche movimenti intrinsecamente tutt'altro che liberali, come i partiti islamici in alcuni Paesi (per esempio, l'Algeria) chiedono libere elezioni e libertà di associazione per poter spezzare il monopolio del potere del partito di regime.
Si è talvolta interpretato questo movimento verso la democrazia come la vittoria di un sistema su tutti gli altri: dell'Occidente, per tutto quanto esso rappresenta (il capitalismo sul piano sociale, il parlamentarismo e il pluralismo su quello politico e culturale), sul modello sovietico e sugli esperimenti del Terzo mondo. Forse è successo qualcosa di diverso: che il valore delle libertà formali e delle procedure politiche legali (il potere della legge, in termini sociologici) si è dimostrato semplicemente più capace di soddisfare le istanze di libertà e partecipazione che non i modelli alternativi elaborati nell'ultimo secolo. Ma nell'Occidente stesso il concetto di democrazia è inteso e presentato in un'accezione debole e ristretta: anche senza aggettivi, la democrazia sottintende la traduzione in atto degli ideali sotto i quali è stato riassunto il significato della Rivoluzione francese (celebrata con grande pompa e spiegamento di convegni e pubblicazioni nell'occasione del bicentenario, 1989): libertà, eguaglianza e fratellanza. Le implicazioni di questi concetti sono tuttora rivoluzionarie ovunque: sia perché alla democrazia politica resta da affiancare la democrazia economica, il controllo reale dei cittadini sui centri della produzione, sia perché le libertà anche più elementari sono nella maggior parte del pianeta disattese, sia infine perché, in un mondo reso sempre più stretto dalla diffusione delle comunicazioni e dall'interdipendenza delle economie, la fratellanza sembra l'unica alternativa alle ricadute nella barbarie della guerra e degli odi nazionali ed etnici.

LA FINE DELLA STORIA


Il secolo XX, da poco tempo terminato, è stato quasi interamente percorso da quel lungo e tragico evento, che è stato chiamato, a torto o a ragione, la Guerra civile europea. Cominciata nel 1914, nel primo centenario del Congresso di Vienna, che aveva posto fine alle guerre napoleoniche, è terminata nel 1989, nel secondo centenario della Rivoluzione francese che ne era stata la premessa, con una propaggine ulteriore negli anni Novanta che ha interessato i Paesi dell'area balcanica.
La fase principale - e più estesa - di questa lunghissima guerra ha avuto tre fasi: due di guerra guerreggiata, la Prima guerra mondiale del 1914-18, la Seconda del 1939-1945; una non guerreggiata, chiamata giustamente, sin dal suo primo manifestarsi, «guerra fredda», la quale, iniziata subito dopo la fine della Seconda, si è conclusa, dopo più di quarant'anni di tregua resa possibile soltanto dal terrore reciproco, col collasso economico, politico e militare di uno dei due grandi antagonisti, l'Unione Sovietica.
Gli Stati democratici, se pure in diversi stadi di sviluppo, sia economico sia politico, e dei loro reciproci rapporti, hanno "vinto" tutte e tre le volte: la prima, contro gli Imperi centrali, se pure alleati con l'autocrate russo; la seconda contro il totalitarismo fascista e nazista, questa volta con l'aiuto determinante dello Stato sovietico; la terza, senza colpo ferire, contro il grande alleato delle prime due guerre, l'Impero prima russo e poi sovietico.
La nascita degli Stati fascisti, che entrarono prepotentemente in scena dopo la Prima guerra mondiale come avversari, contemporaneamente, tanto delle democrazie capitalistiche, quanto dello Stato che era nato dalla rivoluzione russa, aveva dato vita a un terzo sistema di potere nel sempre difficile gioco dell'equilibrio europeo. Era prevedibile che la vittoria sarebbe spettata alle due potenze che fossero riuscite ad allearsi contro la terza.
Le alleanze possibili erano tre: degli Stati democratici con i regimi fascisti contro l'Unione Sovietica, ipotesi caldeggiata soprattutto negli ambienti ultra-conservatori; dell'Unione sovietica con i regimi fascisti contro le democrazie occidentali, più probabile tanto da essere stata messa alla prova, se pure disastrosamente, nei primi due anni di guerra (1939-1941), durante i quali Mosca, in virtù di un patto di non belligeranza con Berlino, restò neutrale; delle democrazie occidentali, infine, con l'Unione Sovietica contro i fascismi.
L'Unione Sovietica tentò in due tempi successivi entrambe le strade a sua disposizione, imboccando decisamente la seconda quando fu aggredita proditoriamente dalla Germania nazista. Gli Stati fascisti rimasti soli, nonostante l'immensa forza militare della Germania e gli strepitosi successi dei primi anni, furono così sconfitti.
La strategia delle democrazie occidentali, invece, nonostante i dubbi iniziali, era ben delineata: prima occorreva vincere il lassismo con l'aiuto, anche soltanto passivo almeno in un primo tempo, del colosso sovietico. Solo alla fine della guerra, sconfitto l'avversario, al cui abbattimento era stata data la precedenza, la grande partita per il predominio europeo sarebbe stata non più a tre ma a due. Come se gli antichi alleati, dopo aver sconfitto il comune nemico, si fossero venuti a trovare nella situazione di dover dire: «Adesso, a noi due!». L'equilibrio del terrore, impedì o rinviò sine die lo scoppio della Terza guerra mondiale, ma all'ombra di questo nuovo sistema di equilibrio, più stabile dei precedenti per l'accresciuta potenza delle armi, si consolidò uno stato di guerra potenziale, se pure senza eserciti combattenti, nonostante le ripetute dichiarazioni di «coesistenza pacifica» da parte del più debole degli avversari, l'Unione Sovietica, non creduta dagli Americani, e nonostante la ripetuta giustificazione, non creduta a sua volta dai Sovietici, dell'alleanza atlantica come alleanza unicamente difensiva. Questo scontro morale durato decenni, in quanto lotta per il predominio mondiale di due sistemi di potere che si consideravano incompatibili, sembrando che non vi potesse essere altra scelta se non tra libertà e schiavitù, oppure tra socialismo e barbarie, ebbe il carattere di una guerra, se pure potenziale, e non poteva finire se non con un vincitore e un vinto.
Dopo le prime due guerre mondiali, la pace fu soltanto una tregua. Dopo la prima, fu interrotta dall'avvento dei regimi fascisti; dopo la seconda, dalla rivalità tra i due vincitori. Dopo la terza, che, a differenza delle due precedenti, ha un solo vincitore, sarà duratura?
La celebre profezia di Tocqueville, secondo cui Stati Uniti e Russia, se pure per vie diverse, erano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini di una gran parte del mondo, si è avverata ma nello stesso tempo si è esaurita. è cominciata una nuova epoca? O addirittura, com'è stato recentemente affermato, ci troviamo di fronte alla «fine della storia»? Se la storia umana è sempre stata storia di lotte per il predominio o soltanto per la sopravvivenza, fra gruppi, classi, nazioni, come potrebbe ancora esserci una storia, nel senso in cui questa parola è stata intesa sinora, nel momento in cui la vittoria non solo più locale né nazionale, ma mondiale di una sola potenza avrà annullato tutti i precedenti antagonismi?
Inutile dire che la «fine della storia» è un paradosso cui probabilmente non crede neppure chi l'ha enunciato. Ciò che forse è finito per sempre è l'epoca delle grandi guerre per l'equilibrio europeo che ha accompagnato la nascita e la crescita dell'età moderna. Fra le tante ragioni per cui sono state proclamate la fine dell'età moderna e l'inizio della cosiddetta età post-moderna, c'è anche questa: il dissolvimento di un sistema mondiale fondato sull'egemonia europea, sconvolto da guerre secolari, di cui la vittoria finale è stata di una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti d'America. All'inizio di questo nuovo corso, decisivo è stato l'intervento degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, determinante il processo di decolonizzazione messo in moto dalla Seconda, conclusiva, la sconfitta dell'Unione Sovietica, se pure in una guerra non combattuta cui segue la disgregazione irreversibile del suo impero.
Nella profezia di Tocqueville si dovrebbe oggi sostituire alla Russia il Giappone, una seconda potenza extraeuropea. Si sta avverando, se mai, l'altra non meno celebre profezia fatta all'inizio del secolo scorso da Hegel, secondo cui la civiltà ha proceduto nel corso dei secoli dall'Occidente all'Oriente seguendo il corso del sole, dall'antica Cina all'India, ai grandi Stati del Medio Oriente, via via all'Europa, agli Stati Uniti; ora, dalla costa Atlantica a quella del Pacifico, dalla California, attraverso il Pacifico «buscando» l'Oriente attraverso l'Occidente, alle isole del Giappone.
La storia non è finita. La fine della storia avverrà soltanto con la fine dell'umanità, che dopo l'invenzione di armi sempre più micidiali, è diventata possibile, se pure improbabile. L'evento che segna questi ultimi anni del secolo è la vittoria, anzi il trionfo, di un sistema di potere e di convivenza, che coniuga la democrazia nella sfera politica con il capitalismo nella sfera economica, una volta sconfitti i regimi capitalistici senza democrazia (i fascismi) e quelli antidemocratici senza capitalismo (i comunismi). Ma nessuno è in grado di prevedere se e quanto questo sistema sia destinato a durare. L'altra grande scommessa dell'Europa civile, la democrazia socialista, ovvero il connubio fra democrazia e socialismo, dovrebbe essere abbandonata per sempre?
L'economia di mercato che sta alla base del successo del modo capitalistico di produzione ha aumentato enormemente la ricchezza globale ma in maniera progressivamente diseguale. La diminuzione del divario tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri dipenderà dalla capacità che avranno i Governi democratici del futuro di correggere le storture del mercato. Il problema non può essere risolto che sul piano internazionale. Ma a questo fine è necessario non solo che la democrazia si diffonda anche nei Paesi attualmente non democratici, che sono ancora la maggior parte, ma che proceda nello stesso tempo la democratizzazione del sistema internazionale attraverso il rafforzamento di un'autorità internazionale al di sopra dei singoli stati, il cui precedente, ancora imperfetto, è l'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Se questi due processi siano destinati a continuare, a nessuno è dato prevedere. Solo è lecito asserire che tutto ciò che va nella duplice direzione dell'estensione della democrazia interna e del rafforzamento della democrazia internazionale, va nel senso del progresso morale e materiale dell'umanità, tutto ciò che l'ostacola va in senso contrario. Che la storia non stia per finire è certo. Che progredisca o regredisca è, invece, imprevedibile.
La fine della «guerra civile europea» durata quasi un secolo è stata a ogni modo un evento fausto che, a chi non pretende di avere prove certe di quel che avverrà, ma si accontenta di indizi, ancorché vaghi, permetteva di affacciarsi al Duemila con qualche buona speranza in un mondo insieme più pacifico e più libero. L'inizio del nuovo millennio, purtroppo, si incaricato di mettere fortemente in dubbio tale ottimistica visione.